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GS EXPLORE è la rubrica di Garage Sale che approfondisce e racconta di sottoculture, storia e moda.

Articolo - Airport Tray Trend

Airport tray trend: nel self-branding c'è ancora spazio per l'autenticità?

Nel panorama in continua evoluzione dei social media, si inserisce un fenomeno che esplora il rapporto tra identità e consumo, legando l’immagine personale all’arte dell’esposizione di oggetti quotidiani: l’"airport tray trend".

Per comprendere pienamente questo fenomeno, è necessario tornare allo “Starter Pack”, un format diffuso che mette in scena una forma di autorappresentazione attraverso una selezione di oggetti iconici che, condivisi sui social, diventano simboli della propria identità. Questo trend suggerisce che siamo definiti da ciò che possediamo e mostriamo, che ogni oggetto in nostro possesso parli di chi siamo. Così, gli utenti abbracciano sempre più la logica del branding, curando la propria immagine con una coerenza estetica e una narrazione studiata (storytelling).

Tra i trend collegati allo Starter Pack, spiccano i format del “What’s in My Bag” e del “My Morning Routine”, dove gli oggetti mostrati – dal libro del momento agli accessori più in voga – diventano estensioni della propria identità. Questi elementi, apparentemente ordinari, vengono elevati a simboli di status e stile, trasformandosi in protagonisti di una narrazione che racconta chi siamo, o chi aspiriamo a essere.

L’Airport Tray Trend si inserisce in questo quadro come una nuova espressione di personal branding: nel momento del controllo sicurezza, gli oggetti che passano sul vassoio dell’aeroporto diventano l’occasione perfetta per esibire una selezione curata di articoli, rivelando dettagli del proprio stile di vita, status sociale e cura dell’immagine.

In un’epoca dominata dai social media, anche il viaggio stesso si trasforma in un’opportunità di storytelling. Ogni accessorio, ogni prodotto di lusso o dettaglio chic catturato in un’immagine può trasmettere messaggi potenti, dall’efficienza organizzativa all’eleganza minimalista o alla propensione per il comfort. L’oggetto diventa simbolo e sintesi dell’identità in viaggio, un riflesso del lifestyle che si desidera proiettare.

Questo fenomeno solleva domande profonde sul nostro rapporto con l’immagine e il desiderio di affermare la nostra unicità. La voglia di distinguersi, di emergere, si traduce davvero in ORIGINALITÀ, o ci porta piuttosto verso una nuova forma di OMOLOGAZIONE?

In fondo, l’Airport Tray Trend e le altre tendenze di self-branding rivelano il tentativo di elevare se stessi tramite un mix di autenticità e strategia, in una società che premia la coerenza estetica e l’identificazione in determinati stili di vita. Ma alla fine, siamo tutti protagonisti della stessa narrazione di consumo?


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Tora Tora Festival (2001)

Il Tora! Tora! Festival nasce nel 2001. Con un format itinerante, era volto a mettere in luce il panorama musicale alternativo italiano. Concepito e organizzato da Manuel Agnelli, figura di spicco della scena rock alternativa e membro degli Afterhours, il festival mirava a risolvere la mancanza di attenzione da parte dei media tradizionali nei confronti dei talenti musicali alternativi del Paese.

Sostenuto dall’etichetta discografica italiana Mescal, il festival si è svolto in cinque edizioni, fino al 2005. Ogni edizione comprendeva una serie di concerti che si tenevano in varie città d’Italia e che mettevano in scena una serie di artisti diversi del genere alternativo.

L’edizione 2001 passa anche per Collegno: Motel Connection, Bluvertigo, Afterhours, Massimo Volume, Reggae National Tickets, Shandon e Tribà si esibiscono al Parco della Certosa.

Manuel Agnelli, membro fondatore e leader del gruppo rock alternativo Afterhours, ne è stato il principale ideatore e organizzatore. L’idea è nata dalla necessità di far fronte ad un certo disinteresse da parte della maggior parte della stampa specializzata, tesa ad ignorare la scena musicale alternative italiana. Il festival potenzialmente avrebbe dovuto fungere da megafono di promozione per le nuove band, veicolando musica e informazioni in maniera non tradizionale rispetto a quella da sempre imposta dai network radiofonici, i quotidiani e televisione. Riuscendo talvolta a fungere anche da scouting per il mainstream discografico.

Oltre agli Afterhours, che hanno partecipato a tutte le tappe, gli altri musicisti maggiormente presenti sono stati i Modena City Ramblers, i Verdena, gli Africa Unite, i Meganoidi, gli One Dimensional Man, gli Shandon, Marco Parente e Cesare Basile.

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L'ascesa di El Paso (1987 -)

Alla fine degli anni Ottanta, mentre Torino attraversava un periodo di trasformazione sociale e culturale, nasce «El Paso» (1987).

Ubicato, in Via Passo Buole - da qui il nome - «El Paso» divenne rapidamente un punto di riferimento per la fiorente scena musicale underground della città. Lo spazio non era solo un luogo per ballare, ma un rifugio per le sottoculture, dove persone di diversa provenienza si riunivano per celebrare la musica, l’arte e l’individualità. 

Al «El Paso» si esibiscono e nascono band locali e internazionali di vari generi, tra cui punk, new wave, post-punk ed elettronica, spesso con sonorità sperimentali e all’avanguardia, come Mano Negra e gli americani The Offspring e NOFX, oltre a numerosi gruppi storici della scena hardcore e post-punk internazionale, tra i quali Fugazi, Youth Of Today, MDC, No Means No, Ratos De Porao, SNFU e Jingo De Lunch

Il significato di «El Paso» va oltre la musica. Lo spazio è anche un punto di riferimento per la cultura delle riviste e delle fanzine indipendenti della città. Scrittori, fotografi e artisti emergenti trovarono una piattaforma per esprimere le loro idee e i loro punti di vista, coprendo una vasta gamma di argomenti, dalla musica alle questioni sociali.

Con il passare degli anni, «El Paso» ha affrontato la sua parte di sfide, tra cui le difficoltà finanziarie e il cambiamento del panorama culturale. Nonostante questi ostacoli, è rimasto un simbolo duraturo dello spirito underground torinese.

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Riccardo Gualino (1879 - 1964) - IT

Riccardo Gualino, influente ed enigmatico imprenditore, mecenate e collezionista d’arte, nasce a Biella il 25 marzo 1879.

Come uno dei primi produttori cinematografici italiani, apre la strada al cinema italiano moderno, fondando le case di produzione Snia, Unica e Lux Film.

All’interno dei salotti culturali di Torino, Gualino e sua moglie Cesarina, sono due personalità centrali. La loro residenza a San Salvario custodisce un’opera unica nel suo genere: il Teatrino. Le sue pareti ospitano esibizioni coreutiche di Bella Hutter e Raja Markman e della loro scuola, cui si unisce talvolta la stessa Cesarina Gualino, con le pennellate di Felice Casorati ad adornarne gli interni. Il teatro, purtroppo, conoscerà la sua tragica fine durante le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale e mai più ricostruito.


Collaborando con il famoso critico d’arte Lionello Venturi, Gualino cura una collezione inestimabile. Nel pieno del regime fascista, I Musei Reali di Torino e la Banca d’Italia ne diventano i custodi. Tra le gemme, emerge un capolavoro: la Venere di Sandro Botticelli.


Antifascista, visionario, imprenditore di successo, la sua vità è stata costellata da figure importantissime: Luigi Pirandello, Edoardo Agnelli, Pietro Badoglio, Sir Winston Churchill, che fu ospitato a Villa Altachiara in più occasioni. La sua influenza, i suoi segreti e le sue alleanze oscure continuano a stimolare l’immaginazione, invitandoci a scoprire la verità sepolta sotto strati di mistero.

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Jesus Jeans - IT

Negli anni Settanta, i jeans Jesus sono diventati un capo cult e rappresentano una delle pubblicità più importanti della storia italiana, incarnando lo spirito ribelle dell’epoca. 

Il talento provocatorio e irriverente di Oliviero Toscani e la creatività ironica di Emanuele Pirella contribuirono al suo successo. 

La prima collezione italiana di jeans fu lanciata nel 1971 da Maurizio Vitale, in un periodo in cui i jeans simboleggiavano una rivoluzione nella moda e la liberazione dai vincoli morali. Il nome «Jesus jeans» fu casuale, ispirato dall’incontro di Oliviero Toscani con un cartellone pubblicitario del musical «Jesus Christ Superstar» a New York. 

L’iconica campagna pubblicitaria Jesus jeans, «Chi mi ama mi segua» fa scoppiare un vero e proprio scandalo portando a censure da parte di magistratura, politica, cultura e Chiesa, per l’accostamento tra il sacro e il profano, tra le foto provocanti e la citazione «sacra» (che poi sacra non fu, perché risultò essere una frase pronunciata, durante una battaglia, dal re francese Filippo il Bello).

Il 17 maggio 1973, l’Osservatore Romano accusa campagna e ideatori di blasfemia. Il giorno seguente vengono sequestrati i manifesti e le fotografie relative a Jesus Jeans. Anche Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera, pubblica un commento intitolato «Il folle slogan dei jeans Jesus»; definisce profeticamente questa pubblicità come «il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale» anticipatore dei valori che andavano mutando.

La campagna pubblicitaria, con foto provocatorie di Toscani e slogan di Michael Goettsche ed Emanuele Pirella, fece scandalo, provocando censure, critiche da parte di varie istituzioni e dibattiti pubblici. Nonostante le polemiche, i jeans Jesus divennero un simbolo di ribellione e giovinezza, catturando lo spirito della rivoluzione sociale e sessuale dell’epoca. 

La campagna è considerata una svolta vincente nella storia della pubblicità, che studia l’impatto di tecniche di comunicazione innovative.

 L’intuizione visionaria di Oliviero Toscani, l’ironia creativa di Emanuele Pirella e la bellezza di Donna Jordan (musa di Andy Warhol, all’epoca) contribuirono a rendere i jeans Jesus un capo di culto nella storia del denim.

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"La fine di Pistoletto" (1967)

6 marzo 1967, Torino, Piper: nella discoteca d’artista modulare e convertibile, Michelangelo Pistoletto, esponente dell’Arte Povera, mette in atto la sua prima azione pubblica.

Se lo slogan del locale era «Piper è la fine del mondo», con un ironico gioco di parole Pistoletto intitola la sua perfomance «La fine di Pistoletto», e da quel momento la magia inizia.

Lungo le pareti si trovano allineati enormi quadri specchianti che ritraggono amici e artisti (Piero Gilardi, Clino Trini Castelli, Faustina Piacentino, Graziella Derossi, grandi artisti d’avanguardia a loro volta e abituali frequentatori del Piper).

Ai margini, disposte lungo la pista da ballo, trenta persone sul volto portano una maschera che riproduce le fattezze di Pistoletto, e tra le mani tengono una lamiera riflettente: essa non solo riflette, ma produce suoni.

Mentre la musica continua a scorrere durante tutta l’azione, Pistoletto espone «Il Pozzo argento», un cilindro alto un metro in cui è possibile affacciarsi e vedere la propria immagine riflessa in uno specchio posto al fondo.

Con «La fine di Pistoletto» il pubblico diventa protagonista.
Negli anni 60’ la discoteca diventa oggetto di interesse per architetti e designer. Spazio modulare e convertibile, poteva essere programmato a seconda delle diverse funzioni d’uso ospitate al suo interno: ballo, concerti, spettacoli teatrali, performances, mostre e sfilate di moda.

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Movimento Femminista a Torino (1970-1980)

Negli anni Settanta la seconda ondata femminista travolge l’Italia, infiammando vie e piazze in ogni dove.
Torino è tra le protagoniste, insieme a Roma e Milano, di movimenti di protesta per rivendicare la lotta femminista e i diritti inalienabili delle donne.
Dalla fine degli anni Settanta, il movimento sposa tematiche fondamentali: diritti di autodeterminazione sul corpo e sulla maternità, salute, violenza contro le donne, lavoro e lavori, pace, politica delle donne.
Queste lotte sono state accompagnate da manifesti spesso autoprodotti e ciclostilati, che colpiscono per lo stile essenziale, il linguaggio semplice e chiaro, e una visione del tutto rivoluzionaria e transgenerazionale per rappresentare il diritto all’autodeterminazione e a una vita egualitaria.
Un esempio è il manifesto «Via il violento» (1979), realizzato per la raccolta firme per ottenere una legge contro la violenza sessuale; oppure «La maternità dev’essere una scelta» (1979) a sostegno della campagna per la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza in occasione dei referendum che la mettevano in discussione (1981).
Rappresenta in modo perfetto la rivendicazione al diritto dell’autodeterminazione del proprio corpo il manifesto «Di chi è la pancia di questa donna» (1973), per invitare a un dibattito pubblico le donne per parlare del diritto all’aborto.

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Torino underground (1990 - 1999)

C’è una Torino misurata, scandita dal lavoro in fabbrica, ingessata, sabauda.
Sotto questo cielo grigio germoglia ormai da diversi decenni la Torino Underground, che nella decade degli anni ‘90 trova la sua massima espressione.
Attraverso dei locali simbolo di quegli anni, molti giovani trovano una scappatoia nella nightlife: insieme ai locali storici degli anni ‘80, come il Polaroid, il Tuxedo, lo Studio 2 e il Big Club, approdano nuovi volti nella notte, che decidono di dare una nuova voce alla città.
I Murazzi ne sono un esempio: come il Doctor Sax e Giancarlo che, con musica d’avanguardia, un linguaggio senza fronzoli o ambiguità, orari dilatati e luoghi senza tempo, raccontano un’intera generazione di torinesi. La musica è sperimentale, il pubblico è variegato e prende tutte le classi sociali che cercano una via d’uscita.
Questi erano discendenti e eredi di uno spirito punk che ha avuto origine dalla Torino hardcore di fine anni ‘80, che fluiva nei centri sociali come El Paso e il Prince, che vedevano gli esordi di band come i Negazione, Panico, Declino, i Nerorgasmo.
Con una decade che si apriva al mondo con l’Italia dei mondiali del ‘90, Torino tentava di crearsi una dimensione spaziale che non cercava di emulare modelli esteri, ma si creava una propria identità; una città che dopo il tramonto imparava a mescolarsi senza le barriere del quotidiano.

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Controcultura e stampa Underground (1968 - ‘77)

Le radici nella stampa underground, nata con i giornali ciclostilati dei gruppi beat, e il suo esaurimento nell’esorbitante produzione di fogli del movimento del ’77, porta alla luce un mosaico di esperienze editoriali capace di restituire, nonostante le differenze estetiche, ideologiche e di mezzi, lo spirito comune a un’intera generazione nonchè la sua parabola di speranze e disillusioni.

L’esperienza della stampa underground italiana dura poco più di dieci anni, influenzata inizialmente da movimenti internazionali come il Dada, i Provos ed i Beat americani, brilla di luce propria con riviste che riescono a portare alla ribalta un altro linguaggio, un altra grafica, un altro mondo fatto di poesia, rivendicazioni, fumetti e musica.
Per quanto spesso dimenticate, Torino è stata un grande laboratorio sperimentale per le fanzine, pubblicazioni non professionali e non ufficiali, nate per raccontare sottoculture e movimenti socio culturali underground.
Le pubblicazioni del movimento, che trattano principalmente di pacifismo, obiezione di coscienza, sessualità libera e ecologia, sono caratterizzate da un aspetto povero, dato non solo dalla qualità della stampa della carta ma anche dalla semplicità dell’impaginazione e del lettering.

Perchè spesso chi voleva avere voce, doveva crearsi il proprio spazio, produrlo a tutti gli effetti: è qui che nascono «Uomini» (1967), «Mai» (1968), «Fuori» (1972), «Io sono Curiosa» (1972), «Vedo Rosso» (1973), «Tampax» (1974), «La vecchia talpa» (1975), «Lambda» (1976); tutti prodotti cartacei ciclostilati, autoprodotti e controculturali torinesi.

Uno strumento democratico, cocciutamente cartaceo e libero, senza mediazioni o regole di sorta che riesce ad appassionare chiunque vi si avvicini.

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Mod Generation

Tra la fine degli anni '70 e l’inizio degli '80, sbarca in Italia il movimento Mod.
Nato in Inghilterra, era un movimento sociale londinese dei tardi anni ’50 con cui la giovane working class locale intendeva reagire alla borghesia razzista ed elitaria, diventando cool, anticonformista e popolare. Bisognava opporsi alla sobrietà e alla morale.
A Torino esplode con l’uscita del film Quadrophenia (Franc Roddam, 1979):
«fu una botta mistica, quei ragazzi che vivevano, gesticolavano, ballavano nello schermo mi diedero una scossa, è come se fino ad allora avessi vissuto una vita non mia […] un giorno aprendo l’armadio dei miei vidi un abito grigio di mio padre anni '60, a tre bottoni, pantaloni senza pences, lo indossai con delle scarpe eleganti nere e andai in piazza in mezzo agli amici di sempre che mi guardarono come un alieno.»
Con un taglio di capelli new french line, abiti sartoriali con giacche strette a tre o quattro bottoni e pantaloni che non terminavano mai a più di due centimetri dalla scarpa, utilizzavano lo scooter come mezzo di trasporto e il parka per proteggere i completi sartoriali durante gli spostamenti in motorino, erano i primissimi teenager per antonomasia: spendere soldi per se stessi, non accumularli per il corredo, per la vita matrimoniale, per un’esistenza convenzionale.

Il Mod si inserisce in un contesto in cui a Torino erano tempi pionieristici, dove i locali che ospitavano serate «alternative» erano rarissime, e le occasioni di aggregazione (subculturale o meno) dovevano essere create ex novo. 
Nacque così, all’inizio degli anni ‘80, l’idea di trovarsi, per i mod torinesi, in piazza Statuto, risalendo alle origini delle sottoculture in Italia. E furono proprio quei gruppetti che popolavano Torino in quegli anni, sfidandosi per «difendere» le proprie piazze, a identificarsi in questo nuovo movimento.

E all’interno di quella scena nacquero band simbolo di quegli anni: primi su tutti gli Statuto, poi i The Mads, The Five Faces, The Coys, Made, I Rudi.

Era «un modo pulito di vivere circostanze difficili» etico e filosofico, prima ancora che estetico.

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Il Piper di Torino (1966 - 1969)

Nel pieno della Beat Generation, apre una discoteca in Via XX Settembre progettata negli anni Sessanta da Piero Derossi con Guido Ceretti e Riccardo Rosso: musicisti, compositori, artisti, designer, attraverso il Piper, hanno segnato la storia di una città e di una generazione.

 Il Piper era dotato di una struttura architettonica poliedrica e trasformista, che si rifletteva nella mentalità dei suoi frequentatori: le parole chiave erano dinamicità, trasformazione, cambiamento.

Nulla era certo, tutto era movimento e fluidità tra ambiti del sapere diversi. Riunire la cultura pop a quella underground, la ricerca teorica alla pratica.

Gli spazi interni erano trasformabili, Nella rotaia centrale scorreva a comando, percorrendo la sala in senso longitudinale, una «macchina luminosa» progettata da Bruno Munari, che proiettava sulle pareti effetti luminosi diversi. La distribuzione delle bevande avviene tramite macchine distributrici tipo self-service.

Su tutto il perimetro corrono rotaie a diversa altezza, a cui può essere appeso qualsiasi tipo di oggetto. Oltre al Piper di Torino nello stesso periodo nascono il Piper di Roma, L’Altro Mondo di Rimini e lo Space Electronic a Firenze. La discoteca è da sempre un luogo di libera espressione, in cui la musica si fonde con il movimento, del coinvolgimento sensoriale.

Ma la discoteca degli anni ’60-’70 era anche un luogo in cui praticare e sperimentare collettivamente, in cui agire anche a livello politico.

Nascono nuove correnti artistiche in Italia e all’estero (l’Arte Povera, l’Arte programmata, la Pop Art, la Land Art, l’Arte concettuale) e le nuove generazioni tendono a una rivoluzione culturale, animata dai movimenti studenteschi e di lotta politica, dalla rivendicazione sessuale e dal desiderio di cambiamento. Spinti dall’esigenza di scardinare gusti, costumi, ritmi e paradigmi fino ad allora dominanti, i progetti come il Piper di Torino si presentano come momenti di evasione dalla conflittualità, luoghi di scambio e di sperimentazione spaziale.

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